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- L’ULIVO: UNA BELLA STORIA di Raffaele Tortora

- TINDARI e la CONTRADA "LUPA" di Raffaele Tortora

 



L’ULIVO: UNA BELLA STORIA

di Raffaele Tortora

Sono molti i miti e le leggende che hanno per protagonista l’ulivo.

Si tratta, certo, di una pianta particolare: più anni passano e, rimanendo sempre verde, più si espande e produce frutti. E quando parliamo di anni ci riferiamo anche a centinaia di anni; non sono, infatti, rari ulivi ultracentenari, forse millenari, ancora vitali ed attivi, veri e propri monumenti della natura.

Tutto ciò è stato osservato sin dai tempi più remoti, portando a considerare l’ulivo quale pianta sacra per eccellenza, dotata di una misteriosa energia che si percepiva come sintesi di potenza feconda e di tranquilla bellezza.

Per gli antichi greci forse rappresentava addirittura l'espressione materiale, evidente, della stretta relazione, quasi identificazione, che annettevano tra buono e bello e ciò è tanto vero che, ad esempio, con la parola “kalos” si indicava sia il bello ed il degno di ammirazione ed onore sia il buono, l’utile, il salutare.

Per spiegare, quindi, questo riguardo privilegiato, quasi religioso, per l’ulivo, si narrava che era stato creato dalla dea Atena per vincere la competizione con Poseidone sul nome da dare alla erigenda città destinata a futura gloria perenne, città che si chiamò, appunto, Atene.

Così, sulla base di questa nobile nascita ad opera di una dea particolarmente importante, preposta alla sapienza, ma vestita con corazza, scudo e lancia, l’ulivo è diventato sacro, protetto da leggi scritte, delle cui fronde venivano insigniti uomini illustri e perfino i vincitori di gare olimpiche.

Nella nostra contrada denominata “Lupa” in territorio di Tindari, all’ombra della PIETRA ALTA, sull’origine dell’ulivo si racconta, però, un’altra storia, animata anch’essa da eventi meravigliosi e datata ad un’epoca ancora più remota.

Questa storia non ci indica in quale luogo avvennero gli eventi narrati, ma precisa solo che si svolsero in uno dei territori che abbracciano il mare Mediterraneo, nel quale dolci colline degradano verso il mare; protagonisti ne furono due giovani, una ragazza ed un ragazzo.

Essi appartenevano a due tribù diverse, insediate in territorio confinanti e sempre in lotta fra di loro. Non è che ne avessero validi e oggettivi motivi: ciascuna aveva campi di caccia, di pascolo e di raccolta diversi, adorava divinità apparentemente diverse, ma, in realtà ambedue avevano il dio della guerra, la dea delle messi e della fecondità, il dio della vita e della morte e così via, solo che ogni tribù attribuiva a ciascuna di questa divinità un nome differente. Anche i due linguaggi erano abbastanza simili e comprensibili dall’una e dall’altra parte.

Allora, mi direte, perché si combattevano? E’ ovvio, perché appartenevano a tribù diverse ed il diverso è inquietante e comunque pericoloso, va tenuto il più possibile lontano ed eliminato. Meglio se fisicamente.

Allora si ragionava così, ma anche allora non mancavano, per fortuna diremmo, persone che pensavano in altro modo….

Ma torniamo al nostro racconto.

La ragazza ed il ragazzo erano pastori, conducevano il loro gregge nei rispettivi campi, lo portavano ad abbeverarsi in un grande fiume che, scendendo tumultuoso fra grandi rocce dalle montagne vicine, divideva il territorio delle due tribù, in un punto in cui le rive erano abbastanza distanti l’una dall’altra.

Un pomeriggio, quasi un appuntamento programmato dal destino, la ragazza, accostandosi alla riva, cautamente, come era solita fare per evitare…cattivi incontri, vide qualcuno che cercava di trascinare nella riva opposta una pecora, ma la corrente del fiume lo spingeva inesorabilmente dove stava lei e forse stava per travolgerlo.

Istintivamente, allora, la ragazza porse un ramo alla persona in pericolo e la aiutò a venir fuori dall’acqua: quando questa, sfinita si abbandonò a terra, con gli occhi chiusi, per riprendere fiato, lei si accorse che era un ragazzo evidentemente dell’altra tribù.

La cosa inspiegabile anche per lei fu che non ebbe paura: rimase lì fino a che il ragazzo non si riprese. Altrettanto inspiegabile fu che questo, quando aprì gli occhi e la vide, le sorrise, anzi si scambiarono un sorriso. Va a capire anche ora come mai due persone, cresciute in un ambiente che avrebbe dovute spingerle ad odiarsi o peggio, si guardarono e si incontrarono, la ragazza magari soddisfatta per aver aiutato l’altro, questo grato per l’aiuto. Ma siamo sicuri che fu la sola ragione, oppure era anche scattata qualche dinamica particolare, una specie di corrente che li attraeva? Forse tutto questo insieme.

Eppure erano giovani normali; nelle favole i protagonisti sono sempre bellissimi, lei con i capelli d’oro, occhi di cielo ed un corpo di gazzella, lui gagliardo e splendido come il sole.

I nostri, invece, avevano la bellezza della gioventù sana, ma forse in più la capacità di incontrarsi senza prevenzioni, una profonda carica di affettività che non temeva di esporsi a slanci ed abbandoni.

Fatto sta che nei giorni successivi, prima come per un altro caso fortuito, ma in realtà inconsciamente ricercato, i due giovani si incontrarono; poi l’incontro divenne per ambedue un bisogno, una necessità ineliminabile.

Il legame, quindi, si fece sempre più intenso, la congiunzione di due persone che liberamente ricercavano non la dissoluzione delle loro due identità, ma una vita ulteriore insieme, senza limiti di tempo, in un unico essere fecondo.

Era questo il desiderio assolutamente sincero e consapevole maturato dai due giovani, che si traduceva in una preghiera continua e pressante rivolta alle loro divinità.

Queste restavano colpite e commosse dalla forza dell’amore e dalla sincerità della richiesta dei due giovani e, ammirate, vollero infine premiarli.

Li tramutarono, quindi, in un nuovo albero del tutto particolare, proprio in un ulivo.

E perché crearono un ulivo, direte voi?

Perché l’ulivo rappresentava assolutamente ciò che i due giovani avevano desiderato, il senso e la svolta che aveva avuto la loro vita.

E’ originato, infatti, dalla terra al pari di ogni creatura, come l’amore è alimentato da una linfa possente ed è proteso a sfidare il tempo senza il ritegno di mostrare le rughe degli anni; si offre nella sua bellezza di fronde sempre verdi e giovani, contiene e mantiene in sé, per la sua generosa fecondità, per sviluppare i suoi fiori e frutti, sia l’elemento maschile sia quello femminile, distintamente, ma in un unico essere autosufficiente.

In sostanza, crearono una pianta speciale, diversa dalle altre, che si connotava non solo per l’aspetto esteriore, ma anche per la sua disponibilità a soddisfare i più vari bisogni umani.

E da allora l’ulivo ebbe, nel pensiero comune, una posizione del tutto particolare, in quanto espressione concreta di un incontro felice tra desiderio umano e benevolenza divina.

La nostra storia continua dicendoci che non a caso l’accorto, l’astuto Ulisse come racconta Omero- abbia scelto proprio un ulivo, forte e rigoglioso, per il suo letto nuziale: in gran segreto tagliò l’albero, senza sradicarlo, sul fusto, vicino al piede, con cui fabbricò il letto e murò intorno le pietre per farne una stanza con tetto, porta e aperture ben serrate e robuste. Questo segreto dell’inamovibilità del letto di ulivo, poi –prosegue, così, il racconto- fu gelosamente custodito con la sola Penelope e costituì la prova decisiva per confermare l’identità dell’eroe.

Leggendo quasi in filigrana i versi del Poeta, a noi sembra di cogliere, nella scelta dell’ulivo e nelle modalità della sua utilizzazione, la rappresentazione simbolica di un legame fermo, solido, indissolubilmente radicato alla terra -e, pertanto, fatto di materia tangibile eppure intima ed esclusiva-, ma che si completa, anche qui, nel segno dell’amore fra un uomo ed una donna, espresso, per uno, nella estrema nostalgia del ritorno e, per l’altra, nell’attesa fedele del compagno.

Pure in questa storia, tuttavia, notiamo che, come nella precedente, l’ulivo è un co-protagonista silenzioso, discreto, ma comunque presente…

E forse, d’ora in poi, in ogni ulivo potremmo intravedere lo spirito vitale di quei due giovani, nel fascino di un racconto che intreccia mito e realtà secondo la cultura ed i gusti del luogo in cui è nato.


A questo punto, se avete avuto sin qui la pazienza di leggere quanto vi abbiamo offerto, vi sarete convinti –probabilmente a ragione- che la nostra ammirazione per l’ulivo derivi dal fatto che siamo rimasti addirittura plagiati dagli antichi miti.

Bisogna, però, riconoscere che la pianta in sé è completa, è docile alle necessità dell’uomo, può vivere da sola perfino in terreni poveri ed aridi, ma sta bene anche in compagnia dei suoi simili.

Dalle radici -che si espongono anche al nostro sguardo- sembra promanare un’energia prorompente che quasi costringe il tronco ad uno sforzo immane per incanalarla verso i rami, le foglie, i frutti, verso l’alto, la luce. Il tronco infatti, dopo qualche anno di crescita sembra corrugarsi e contorcersi nell’ansia di consentire a questa energia di fluire ed esprimersi in tutta la sua potenza, assecondando anche le forze invisibili che governano le rotazioni della terra ed i cicli della luna.

Osservato da solo, il tronco sembra addirittura rinsecchito, non fa trasparire la vitalità che, invece, ha dentro e che va a formare, in un intreccio di rami, foglie e frutti, una quieta armonia di forme e colori.

La bellezza, peraltro, è congiunta con la totale generosità dei suoi doni: dell’ulivo tutto si prende, dal legno -da cui gli artigiani da sempre traggono oggetti il cui decoro è costituito dal colore caldo e dalle venature ricche, quasi arabeschi-, alle olive, cibo sano e nutriente, al loro olio, condimento gustoso e salutare, che, in passato, serviva anche ad illuminare il buio della notte.

L’ulivo, infine, con semplicità diffonde e contagia l’ambiente circostante di una forza positiva, serena e rigeneratrice.

Se quanto sopra descritto vi sembra un poco retorico o esagerato, provate ad immergervi in una distesa di ulivi, ascoltando solo il loro delicato stormire di foglie: l’atmosfera a poco a poco vi sembrerà quasi surreale, nel senso letterale del termine. Da un lato, la fermezza rassicurante dei tronchi, dall’altro, il silenzio addolcito dal vibrare della chioma degli alberi, i cui rami si distendono a voi vicino, ma cercano anche il sole. Sembra proprio che si impegnino per aiutarvi a fermarsi anche un momento, per scaricarsi dell’inutile e ricaricarsi per quanto davvero importante e più elevato….

Cosa pretendere di più da una pianta?

Raffaele TORTORA

Indice



TINDARI e la CONTRADA "LUPA"
E ORA VI RACCONTIAMO ALCUNE STORIE…

di Raffaele Tortora

Dovete sapere che di fronte alla collina della contrada denominata "Lupa", nella quale si sviluppa l'azienda (ne avete visto forse, prima, le foto), molto fertile, ricca di uliveti e di un fitto bosco di querce e castagni, si trova il promontorio di Tindari, proteso a strapiombo dinnanzi alle Isole Eolie e sul quale è eretto un santuario votivo alla Madonna Nera.

Dal promontorio si vedono ora dall'alto, alla fine del ripido precipizio, una serie di spiaggette e laghetti, che lo separano dal mare aperto: è questo il parco naturalistico protetto di Marinello.

Tindari, per la sua posizione strategica, è stata scelta, dalle varie civiltà succedutesi nel tempo, come sede di cittadelle fortificate, ma ha un'atmosfera particolare, sembra un posto incantato, tanto che gli antichi Romani vi eressero, sui resti di altri preesistenti, un tempio dedicato a Cerere, dea della fecondità della terra e delle messi.

Qui si è radicata una pia leggenda. Ve la riassumiamo, nel caso non la conosciate.

In origine, secondo la tradizione, il promontorio dava direttamente sul mare, con un dirupo molto aspro, in fondo al quale si infrangevano le onde del mare quasi sempre agitato.

Si racconta che una mattina alcuni pescatori, scampati nella notte ad una terribile tempesta (non dimentichiamo che le vicine isole prendono il nome da Eolo, dio dei venti), trovarono arenata nella spiaggia prossima al promontorio una cassa ben sigillata.

Apertala, la curiosità si trasformò in emozione, perchè la tanto invocata Madonna nel momento del pericolo era proprio in quella cassa, effigiata in un tronco cavo di albero. La sorpresa fu anche maggiore quando si accorsero che l'immagine rappresentava una Madonna Nera con il suo Bambino Gesù.

Il ritrovamento della singolare statua, in quelle particolari circostanze, fu per loro l'indicazione sul come esprimere la gratitudine per la salvezza ricevuta: innalzare un tempio alla Madonna ed il luogo prescelto fu proprio il promontorio di Tindari, contro i cui scogli avevano rischiato di naufragare, e proprio al posto del tempio pagano di Cerere, ormai, dopo l'avvento del cristianesimo, caduto in rovina.

Il nuovo santuario, diffusasi la notizia, divenne ben presto meta di pellegrinaggi da parte di devoti provenienti da tutta la Sicilia e dalla vicina Calabria, chi per testimoniare grazie ricevute, chi per chiederne.

Su questa tradizione, quasi un fatto storico, si innesta la pia leggenda di cui parlavamo prima.

Si racconta, infatti, che ad uno dei tanti gruppi di pellegrini si unì una giovane madre con la sua figlioletta; la donna era molto bella, di carnagione chiara, alta e slanciata.

Quando vide l'immagine della Madonna, si dice che abbia esclamato: "Sono venuta da tanto lontano per pregare dinnanzi ad una Madonna Nera e brutta!"

Mentre così parlava, la figlioletta le sfuggì di mano e scivolò verso il dirupo, nel precipizio.

La madre disperata gridò alla Madonna:"Salvala, salvala, ti prego!". Alle sue urla gli altri pellegrini si unirono alla preghiere, mentre chi poteva corse sui sentieri aspri che scendevano verso il mare, spinti più dalla disperazione di quella madre che dalla speranza di ritrovare la bimbetta, e in vita, fra gli scogli battuti dalle onde.

E qui il racconto si illumina di un fatto prodigioso.

Quando, dopo molta fatica, i soccorritori riuscirono a giungere in fondo al dirupo, si accorsero che il mare aveva lasciato il posto a deliziose spiaggette, intervallate da piccoli laghetti: Marinello, appunto.

Su una di queste spiaggette c'era la bimba, che giocava tranquillamente con la sabbia, circondata da coniglietti selvatici.

Naturalmente tutti gridarono al miracolo, che, però, non venne dichiarato ufficialmente dalla Chiesa, ma che, comunque, fu considerato tale nei racconti popolari.

La fama della Madonna Nera di Tindari si accrebbe ancora di più e così il flusso di fedeli che ricorrevano a Lei –e ricorrono ancora oggi a Lei- per sottoporLe le loro necessità e speranze.

Questa è la pia leggenda che si tramanda.

Ma noi ci siamo chiesti: che cosa è successo, dopo, alla madre ed alla bimba protagoniste di questo evento portentoso? Non riuscivamo, infatti, a spiegarci perché, dopo tanto clamore, ad un tratto ci sia stato come una cortina di silenzio sulla vita di quelle due persone: riservatezza, rispetto ?

In effetti, come abbiamo scoperto, la loro storia non si era persa, ma gli eventi successivi –piccoli, non clamorosi, eppure importanti e degni di nota- venivano raccontati, come dire, a mezza voce, sussurrati e tramandati fra amici fidati.

Così, con lo scorrere del tempo, la memoria collettiva ha alimentato a poco a poco l'immaginazione, il gusto del racconto meraviglioso ed esemplare: in una parola, ne è nata una favola.

Noi ve la proponiamo come l'abbiamo ascoltata, senza entrare nell' intreccio fra pur possibili fatti reali originari ed invenzioni successive, convinti che le favole sono sempre belle ed aiutano a crescere nella consapevolezza delle cose.

La giovane donna era certamente conscia ed orgogliosa della sua bellezza e ne aveva le ragioni, ma non era affatto vanesia e vuota.

Il miracolo –noi continuiamo a chiamarlo così- l'aveva lasciata come tramortita.; comprendeva il dono meraviglioso che aveva ricevuto, ma non voleva essere sopraffatta –lei e la bambina- dalla pur comprensibile curiosità della gente. Desiderava, infatti, raccogliersi in silenzio, meditare sul privilegio ricevuto e crescere la figlia con la massima serenità, senza essere additate in ogni momento come persone segnate dal miracolo.

Così, lei ed il marito decisero di trasferirsi in una cittadina più grande, dove non erano conosciuti di persona.

Non erano ricchi, ma erano molto uniti; il marito, bravissimo artigiano, si fece conoscere presto per il suo lavoro e fu, perciò, in grado di mantenere le due persone più importanti della sua vita con relativo benessere.

La bambina, che quasi senza accorgersene cominciarono a chiamare Maria come nomignolo affettuoso, crebbe gioiosa e serena; molto intelligente e straordinariamente riflessiva ed intuitiva, frequentò, quindi, le scuole sino alle superiori con molto profitto e successo.

Amava, infatti, lo studio, si interessava di tutto, ma era sorprendente il suo amore per gli animali: assolutamente ricambiato, perché non ce ne era alcuno, di qualsiasi razza, che non si volesse fare accarezzare da lei. Nello stesso tempo lei e la madre erano sempre pronte ad aiutare tutti quelli che ne avevano bisogno.

E del miracolo ricevuto parlavano fra loro, direte voi?

Vi potrà sembrare strano, ma la madre non aveva voluto dire niente alla figlia per non turbarla; la bambina ricordava solo, chiacchierando con la madre, che un giorno aveva volato insieme a grandi uccelli bianchi (nel promontorio di Tindari ci sono moltissimi nidi di gabbiani) e che una bella Signora Nera le stava accanto e le sorrideva.

Ricordava anche una montagna dove era salita prima del suo volo, ed il ricordo era del tutto sereno, come un bel sogno. Chiedeva qualche volta alla madre di tornare su quella montagna, ma senza insistere.

Passarono così gli anni, la bimba divenne presto una donna ancora più bella della madre e scelse di non sposarsi nonostante le molte richieste di giovani affascinati anche dalla sua cultura e dalla sua dolcezza.

Poi la madre si ammalò e quando si sentì prossima alla fine raccontò alla figlia il fatto miracoloso di cui erano state protagoniste.

I ricordi della bimba, un poco confusi sulla vicenda, ma nitidi nelle immagini, con la rivelazione della madre divennero quindi, per lei ora donna, tante tessere che ricomponevano un mosaico bellissimo che dava senso a tutto lo svolgersi della sua vita: non rappresentavano più una storia o una fantasia di bimba, ma la trama di una esistenza che si definiva e che aveva permeato e avrebbe continuato a permeare tutto il suo modo di essere, i suoi comportamenti passati e futuri.

Venuta a mancare la madre, Maria decise con il padre di tornare sul luogo dove la sua Signora Nera le aveva sorriso e che prima forse considerava un desiderio fantastico di bimba: a Tindari.

Ma c'era un problema: in quella collinetta non trovarono una casetta disponibile, magari con un piccolo orto vicino; trovano l'una e l'altro, invece, della dimensione giusta per le loro limitate esigenze e disponibilità economiche, poco lontano, in una contrada detta "Lupa".

Anche qui, dietro questo nome, c'è una storia, un'altra storia che si intreccia, ora, con quella della nostra bimba miracolata.

Dalla casetta in cui Maria con il padre si stabilì si intravedevano, fra gli alberi, il promontorio di Tindari e soprattutto il Santuario della Madonna Nera; la vicinanza le consentiva, quindi, di fare frequenti visite alla sua Signora, nel Santuario, per contemplarLa e pregare, ma ciò non sempre le era possibile.

Ma che aveva da fare, direte voi?

Il fatto è che gli abitanti della zona -e, in particolare, quelli della contrada "Lupa"- accettarono subito Maria come una di loro; i bambini per primi si sentivano istintivamente attratti da Lei, percependo, dal suo sorriso e dai suoi modi, una persona diversa, di cui fidarsi ed a cui appoggiarsi. I loro genitori cominciarono presto a provare gli stessi sentimenti.

E Maria non si risparmiava; insegnava a leggere e scrivere, seguiva negli studi chi era in difficoltà, sempre disponibile ad aiutare, assistere, confortare, consigliare chi era solo, malato, chi si trovava, comunque, in uno stato di disagio.

La casetta dove abitava era quasi ai piedi della collina, ma salendo su questa collina si poteva avere una visione più chiara del Santuario, con il suo panorama sul mare delle isole Eolie.

Maria quindi, quando non aveva tempo nè modo di andare al Santuario, prese l'abitudine di salire sulla collina, sembrandole di stare così più in contatto con la sua Signora.

Gli abitanti della contrada, appena se ne accolsero, si allarmarono e consigliarono, anzi supplicarono, la "signurinuzza" (come la chiamavano) di non andare sulla collina e per di più da sola: lì girava una bestia ferocissima, una lupa alla quale da tempo gli uomini davano invano la caccia e da cui aveva preso nome la contrada.. Le avevano ucciso i cuccioli, ma lei era introvabile. I suoi ululati ricorrenti erano terribili, facevano gelare il sangue a tutti e persino i cani ne erano completamente terrorizzati.

Così, quando era necessario salire sulla collina per provvedere ai lavori di potatura, raccolta ed alle altre incombenze, i contadini andavano in gruppo, comunque armati di forconi e bastoni.

Maria aveva sentito quegli ululati, ma non ne era rimasta per nulla impressionata e non smise, quindi, di andare sulla collina; si portava qualcosa da mangiare e rimaneva seduta sull'erba, all'ombra degli ulivi, con lo sguardo ed il pensiero dedicato alla sua Signora.

Non passò molto tempo che un pomeriggio si sentì osservata; non si mosse, capì che si trattava della lupa e con la massima tranquillità, quasi sussurando, le disse:
"Non aver paura, non ti faccio del male. Anzi, prendi un poco del mio cibo, ce lo dividiamo da buone amiche…".

Quindi, con gesti misurati, prese dalla borsa il cibo che aveva portato per sé e lo mise a terra. Si alzò, poi, piano piano e si allontanò di pochi metri, sedendosi nuovamente.

Per un lungo momento ci fu silenzio assoluto, sembrava che anche le foglie avessero smesso di frusciare.

Maria continuò, sempre con voce bassa:
"Poverina, ti hanno ucciso i tuoi cuccioli, ma non devi temere nulla da me. Forse hai fame, mangia qualcosa…"

Ancora silenzio. Maria attese ferma; poi, dopo un tempo indefinibile, le foglie ripresero con intensità a frusciare ed uno splendido esemplare di lupa uscì allo scoperto, cautamente si avvicinò al cibo, lo prese ed andò via subito: non scappò, ma ritornò nel folto della vegetazione con portamento sicuro, si potrebbe dire regale, quasi solenne.
Maria le disse solo: "Ti aspetto domani".

Il giorno dopo tornò al solito posto, posando il cibo poco lontano da dove si era messa seduta.

Sentiva che c'era già la lupa ad aspettarla.

Anche questa volta la lupa uscì cautamente a prendere il cibo, ma si trattenne un poco a guardare Maria prima di allontanarsi.

Nei giorni successivi la scena si ripetè; Maria parlava alla lupa raccontando di sé, di altri fatti accadutile, dei suoi pensieri e la lupa a poco a poco si avvicinava sempre più a lei, sino a sederle vicino.

Maria non cercò di toccarla o di accarezzarla, le parlava soltanto e la lupa la fissava con occhi intelligenti, mostrando di capire, se non la lettera delle parole, il sentimento che le ispirava, il loro significato più profondo.

Era un appuntamento bellissimo, al quale Maria mancò poche volte, solo quando era trattenuta da qualche impegno non rinviabile.

Gli abitanti della contrada si accorsero presto che queste sue strane assenze continuavano, ma avevano grande considerazione di lei e non fecero più domande; quanto al pericolo della bestia feroce, avevano la prova di come riuscisse a farsi amare anche dagli animali e poi….gli ululati erano cessati.

Avvenne, però, che per caso un bambino, guardando da lontano la radura dove era solita sedere Maria, in qualche modo intuì che le stava accanto un animale: un cane, forse la lupa?

Scappò subito via, ma non si trattenne dal raccontare la cosa a sua madre. Questa non gli diede retta, ma comunque il racconto, infiocchettato di elementi inventati, si diffuse, giungendo alle orecchie di un uomo che aveva scommesso con gli amici, fra un bicchiere e l'altro, che avrebbe eliminato la lupa.

Quest'uomo pensò che, se veramente c'era una possibilità, tanto valeva sfruttarla; radunò allora, in segreto, gli amici garantendo la veridicità della notizia. Il gruppo, quindi, tenne d'occhio Maria e la seguì da lontano quando salì sulla collina.

Come al solito, Maria andò a sedersi nella radura, accolta dalla lupa.

Erano lì da poco, quando la lupa rizzò le orecchie e si irrigidì. Maria comprese che aveva percepito un pericolo incombente e, per la prima volta, le passò dolcemente un braccio intorno al collo, dicendole: "Non temere, ci sono qua io a difenderti…"

Sentiva, sotto la morbida pelliccia, i muscoli attraversati da una fortissima tensione, duri come il marmo; la lupa, però, non fuggì e accettò l'abbraccio, ferma accanto a lei.

Dopo qualche minuto giunsero i cacciatori, armati, e circondarono la donna e la lupa pur tenendosi un poco discosti, ma in modo da intrappolare l'animale.

L'uomo che guidava il gruppo, pregustando la vincita della scommessa, gridò alla "signurinuzza" di allontanarsi.

Maria, invece, strinse ancora di più a sè la lupa e con voce chiara e decisa gli rispose: "Se volete far male a questa creatura dovete prima uccidere me. Lei sta con me, lasciatela vivere in pace, per nessuno più è una bestia selvaggia e feroce".

La lupa guardò Maria e poi gli uomini; i suoi muscoli a poco a poco allentarono la tensione. Si accucciò, quindi, posando il muso sulle gambe di Maria.

Gli uomini rimasero interdetti; conoscevano bene Maria; anche loro erano contagiati dal suo fascino discreto e nutrivano per lei rispetto e fiducia: avevano, tutti, motivi di riconoscenza nei suoi confronti per l'aiuto in un modo o in un altro ricevuto, in diverse circostanze,

Così, dopo essersi consultati in silenzio con lo sguardo, con lo stesso silenzio si allontanarono.

Gli incontri di Maria con la lupa da quel momento in poi non ebbero più ostacoli.

Vi chiedete come finì?

Maria e la lupa invecchiarono insieme; la lupa si spense sotto le carezze amorevoli di Maria.

Dopo altri anni, anche Maria salì per l'ultima volta sulla collina con lo sguardo rivolto alla Madonna Nera e da lì riprese con la sua Signora il volo iniziato da bambina.

Non sappiamo o non ci dissero dove si fece seppellire.

Questa ultima bella storia finisce qui e noi ve la abbiamo riferita come ce l'hanno confidata: con qualche silenzio, molto affetto e molta discrezione, forse per rispettare il riserbo, fatto di riflessione e devozione profonde, delle protagoniste.

Il nome della contrada, comunque, restò quello di prima –"Lupa"-, ma questa denominazione, da allora, non indicò più un ambiente ostile e minaccioso, segnato dalla presenza di un animale feroce, ma un luogo pacificato in cui lo stesso animale divenne simbolo di un sistema armonico di relazioni positive fra tutti gli esseri viventi. Certo, si disse che tutto ciò ha avuto impulso da una persona straordinaria e che il propellente erano stati attenzione, amore intelligente e premuroso, forse qualche forza misteriosa. Chissà….

Lasciandovi, ci sembra di poter concludere che forse nessuno potrà accertare la veridicità delle varie storie che vi abbiamo fin qui narrato.

Ma,poi, è proprio così importante sapere se sia tutto o in parte inventato o immaginato?

Qualunque sia la vostra convinzione, però, resta una domanda finale: come mai proprio in questi luoghi sono sorte e si tramandano tali storie?

Vi abbiamo detto all'inizio che si tratta di posti particolari, considerati sin dall'antichità quasi magici.

E in effetti qui il cielo e tutte le espressioni della terra danno il senso di una armonia superiore da contemplare e da rispettare, invitano a ricercare una spiritualità profonda, sotto lo sguardo sereno e senza tempo degli ulivi, la pianta sacra per eccellenza.

E l'uomo da millenni raccoglie i doni di questa pianta meravigliosa: i rami come simbolo di pace, i frutti da cui trarre elementi salutari e, in particolare, l'olio, che non a caso ancora oggi per la Chiesa cattolica è l'elemento costitutivo del crisma usato per la somministrazione dei sacramenti.

Raffaele TORTORA

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